Se i proventi del furto vengono utilizzati per giocare dazzardo la pena è ridotta?
Si fingeva un agente di una nota società d’assicurazione per ottenere il versamento di grosse somme di denaro a titolo di premio, per polizze assicurative che ovviamente non avevano niente di vero. L’uomo, già condannato dalla Corte d’Appello, ricorre in Cassazione sostenendo una posizione interessante. I proventi delle truffe sarebbero stati utilizzati al fine di giocare d’azzardo e, soffrendo l’imputato di ludopatia, si configurerebbero i requisiti necessari per dichiararlo incapace di intendere e volere.
La Cassazione ricorda che «Ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, anche i “disturbi della personalità”, che non sempre sono inquadrabili nel ristretto novero delle malattie mentali, possono rientrare nel concetto di “infermità”, purché siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente».
Nel caso in esame la ludopatia grave è sì l’antefatto primo del crimine, che però non è commesso in vista di una immediata occasione di gioco, quindi in risposta ad una spinta psicologica “compulsiva” (come di chi rapini una persona brandendo un coltello per poi correre a giocare al videopoker i proventi così ottenuti) ma piuttosto al fine di riparare ai danni e ai debiti causati in precedenza. Questo, oltre all’elevata complessità e organizzazione delle truffe, permette di escludere che il disturbo della personalità abbia portato l’imputato a commettere un crimine compulsivo e rapsodico, quindi senza la facoltà di intendere e volere.
La Cassazione procede con il respingimento del ricorso e la conferma della condanna.
Consulta la Sentenza n. 44659 del 13.10.2016 della Corte di Cassazione
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