Spaccio stupefacenti: quando la detenzione illecita non può essere attenuata dal c.d. “consumo di gruppo”

Nella sentenza 41346/2016, la Corte di Cassazione ha valutato il ricorso di un imputato contro la precedente condanna della Corte d’appello per i delitti di spaccio di sostanze stupefacenti e per l’omicidio colposo di uno degli assuntori della sostanza ceduta. L’imputato contestava sia la mancata configurazione dell’ipotesi del “consumo di gruppo” che la ritenuta sussistenza del nesso causale in riferimento all’evento morte.
Rispetto alla prima ipotesi del consumo di gruppo, la Suprema Corte richiama quanto già delineato dalla stessa Corte (sentenza n. 25401 del 31/01/2013), cioè che il consumo di gruppo “può ritenersi configurabile alla triplice condizione che: 1) l’acquirente dello stupefacente sia anche uno degli assuntori; 2) l’acquisto avvenga sin dall’inizio per conto degli altri componenti del gruppo; 3) sia certa sin dall’inizio l’identità dei mandanti e la loro manifesta volontà di procurarsi la sostanza per mezzo di uno dei compartecipi, contribuendo anche finanziariamente all’acquisto”. Facendo riferimento a quanto già rilevato nell’iter procedimentale precedente, la Suprema Corte rileva che – nel caso specifico – mancano i requisiti 2) e 3), “non potendosi ritenere, stante soprattutto la casualità dell’incontro tra i tre per come descritta, né che l’acquisto fosse avvenuto sin dall’inizio per conto degli altri componenti dei gruppo (gruppo peraltro inesistente, così come emergente dalle dichiarazioni dello stesso imputato), né che fosse certa sin dall’inizio l’identità dei mandanti e la loro manifesta volontà di procurarsi la sostanza”; inoltre rileva anche “il requisito della “co-detenzione”, … risultando dei tutto evidente come, per quanto evincibile dai fatti sopra esposti,” l’imputato detenesse in proprio lo stupefacente e non per conto del (peraltro inesistente) gruppo»”. La Corte ha pertanto ritenuto sussistente il reato di cui all’art. 73, d.P.R. n. 309/90 (“Produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope”).
Per quanto attiene la seconda ipotesi di morte in conseguenza dell’assunzione di sostanze stupefacenti, la Corte ricorda come in tale caso sia richiesta un’accurata indagine circa l’elemento psicologico della colpa in capo al soggetto agente, in modo da poter accertare la sussistenza di una colpa in concreto. Con richiamo alla sentenza 22676/2009 delle Sezioni Unite, si ricorda che: “nell’ipotesi di morte verificatasi in conseguenza dell’assunzione di sostanza stupefacente, la responsabilità penale dello spacciatore ai sensi dell’art. 586 C.P. per l’evento morte non voluto richiede che sia accertato non solo il nesso di causalità tra cessione e morte, non interrotto da cause eccezionali sopravvenute, ma anche che la morte sia in concreto rimproveratile allo spacciatore e che quindi sia accertata in capo allo stesso la presenza dell’elemento soggettivo della colpa in concreto, ancorata alla violazione di una regola precauzionale (diversa dalla norma penale che incrimina il reato base) e ad un coefficiente di prevedibilità ed evitabilità in concreto del rischio per il bene della vita del soggetto che assume la sostanza, valutate dal punto di vista di un razionale agente modello che si trovi nella concreta situazione dell’agente reale “. Solo rispetto a questo punto, la Cassazione ha accolto il motivo di ricorso.
Consulta la sentenza della Corte di Cassazione 3.10.2016 n. 41346

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