Mobbing: perché si configuri il reato è necessario lintento persecutorio del datore di lavoro
Il caso esaminato dalla Cassazione è quello di un agente di Polizia Municipale che ha subito abusi e umiliazioni sul luogo di lavoro, preordinate e volute per finalità ritorsive, avendo l’agente dato luogo a rimostranze, prima in sede extragiudiziaria e poi giudiziaria, in presenza di determinazioni datoriali che egli riteneva illegittime.
“Il lavoratore venne assegnato allo svolgimento delle pratiche cimiteriali, con sede stabilita presso gli uffici cimiteriali. Dalle deposizioni testimoniali era emerso che fu accompagnato all’entrata del cimitero e gli fu detto che quella era la sua sede di lavoro.” Questa esposta è soltanto una delle numerose testimonianze riportate in Sentenza a sostegno della condanna.
Quando si configura il reato di mobbing lavorativo?
La Cassazione, nell’esporre le motivazioni che sottostanno alla conferma della condanna, ricorda i numerosi elementi atti a configurare il reato di mobbing:
- una serie di comportamenti di carattere persecutorio, anche leciti se considerati singolarmente, che siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, dal datore di lavoro o da suoi sottoposti;
- una lesione della salute, della personalità o della dignità del dipendente;
- una connessione causale fra i fatti sopra descritti e il pregiudizio subito dalla vittima
- l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante dei comportamenti lesivi.
Nel caso in questione, oltre alla testimonianza sopra riportata, numerose altre hanno permesso di ricostruire una persecuzione mirata, motivata da una causa precisa e cagione di un danno biologico comprovato. Rileva anche, nella circostanza, il comportamento degli altri agenti in servizio nel Comune in questione “che allontanano il soggetto scomodo temendo a loro volta di essere oggetto di condotte ritorsive” e si rifiutano di testimoniare.
Qualora il lavoratore riesca a provare, come in questo caso, il rapporto causale fra il danno subito e le persecuzioni subite sul lavoro, ha diritto a essere risarcito. La Cassazione, quindi, procede con il respingimento del ricorso e la conferma della condanna.
Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza del 27 gennaio 2017, n. 2142
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